La morte del Generale Slobodan Praljak in diretta si può considerare a tutti gli effetti una morte eroica, una morte che va contro le logiche volute dalle potenze demoplutocratiche a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Ormai le nostre menti, assuefatte a principi imposti, non accettano più un simile gesto, ritenendolo come un atto di vigliaccheria o ancor peggio. Eppure il suicidio del militare è un qualcosa che è ben presente fin dagli albori della nostra civiltà. Si combatte, si cerca di vincere e infine, qualora la sconfitta è inevitabile, ci si suicida. Un esempio a riguardo è il destino di un comandante di vascello quando la sua nave affonda. Una volta si diceva che il capitano doveva seguire il destino della nave, ovvero affondare su questa. Oggi questa espressione si è tramutata con un perbenista “il capitano deve essere l’ultimo a lasciare imbarcazione”, salvo i casi in cui vede il buio e scappa sulla prima scialuppa.
L’elemento essenziale della guerra è l’esercizio di violenza. A essere processati presso il Tribunale internazionale non dovevano essere tanto i materiali autori delle atrocità, ma coloro che hanno foraggiato tutte quelle dinamiche che hanno causato il il dissolvimento della Jugoslavia nel 1991 e le successive guerre.
I veri responsabili non sono, infatti, i vari generali croati e serbi che hanno certamente compiuto atti di guerra e di violenza, ma coloro che hanno dato le armi a questi, ovvero coloro che hanno incitato queste guerre. Chi ha fatto sì che un semplice regista diventasse un generale, processato in un tribunale internazionale? È questa la vera domanda alla quale il tribunale internazionale dell’Aja non darà mai una risposta, così come non saranno mai chiare le modalità con cui Slobodan Praljak ha ricevuto il veleno.
Troviamo la cultura del suicidio anche in Giappone. Basti pensare alla morte del generale Onishi, colui che istituzionalizzò la forma di attacco suicida dei velivoli che si schiantano contro obiettivi militari sensibili: i kamikaze. Nonostante nel 1945 il Giappone sia stato evidentemente destinato a perdere la guerra, Onishi restò profondamente sconvolto dalla resa dell’imperatore. Scrisse alle famiglie dei soldati kamikaze, chiedendo perdono per le morti che egli sentì sulla propria coscienza. Fedele fino all’ultimo ai principi del codice militare bushido, il codice di vita adottato dai samurai, optò per il suicidio.
Giorgio Cegnolli